IL RUOLO DEL SESSO NELLA COPPIA:QUANDO IL DIRITTO E I GIUDICI METTONO IL NASO TRA LE LENZUOLAIl controverso panorama giurisprudenziale diviso tra doveri e libertà
- Avv. Elena Cassella
- 12 mar
- Tempo di lettura: 8 min
La sfera intima e sessuale è uno degli aspetti che viene ritenuto tra i più importanti all’interno del matrimonio e che riguarda un ambito privato che ogni coppia gestisce come meglio crede.
Ma è davvero così oppure esiste un vero e proprio obbligo dei coniugi ad avere rapporti sessuali all’interno del matrimonio?
Trattasi di una tematica assai complessa, perché richiede un difficile equilibrio tra i c.d. doveri coniugali e la libertà di autodeterminarsi di ogni individuo.
Un interessante spunto di riflessione è stato fornito dalla CEDU (Corte Europea dei diritti dell’uomo), che si è recentemente espressa con la sentenza del 23 gennaio 2025, sul ricorso n. 13805/2021, con cui ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 8 della Convenzione (ossia il diritto al rispetto della vita privata e familiare) commessa dallo stato francese nei confronti di una donna alla quale era stata addebitata la colpa del divorzio per non avere più avuto rapporti sessuali con il marito.
In sintesi, la vicenda riguarda una coppia francese che aveva contratto matrimonio nel 1984, dal quale erano nati quattro figli. Dopo ben 28 anni di matrimonio, nel 2012 la donna aveva chiesto il divorzio, sostenendo che il marito avesse dato priorità alla carriera lavorativa e che fosse stato violento e offensivo durante tutti quegli anni. Costituendosi nel giudizio, il marito chiedeva di contro che il divorzio fosse addebitato alla moglie, accusandola di essersi sottratta per anni ai rapporti sessuali, da lui ritenuti obbligatori all’interno del vincolo matrimoniale. La donna, in effetti, ha ammesso di aver ridotto e poi smesso tali rapporti, ma a causa di problemi di salute e di abusi da parte del marito.
Il Giudice di primo grado francese aveva assunto una posizione “neutrale”, ritenendo che non vi fossero gli estremi per attribuire l’addebito a nessuno dei due coniugi, in considerazione dei problemi di salute della donna, che venivano considerati motivazione sufficiente per essersi astenuta dai rapporti intimi con il marito.
Il giudizio proseguiva in grado di Appello, dove questa volta la donna vedeva attribuirsi la responsabilità esclusiva del divorzio, con conseguente addebito economico, perché secondo i Giudici i riscontri medici non avrebbero potuto giustificare il continuo rifiuto di rapporti intimi con il marito. Il Codice Civile francese, infatti, prevede una serie di diritti e doveri derivanti dal matrimonio, tra cui la “comunione di vita”, spesso interpretata anche come comunità di letto, includendo tra i doveri coniugali anche quello di intrattenere rapporti sessuali con il coniuge, in molti casi sanzionando la prolungata astensione delle relazioni intime.
Anche in ultimo grado di giudizio, la Cassazione francese confermava quest’ultima statuizione, ribadendo l’addebito alla moglie per essersi sottratta ai rapporti fisici con il coniuge.
La donna, con tenacia e caparbietà, si rivolgeva quindi alla Corte di Strasburgo sperando in un esito diverso.
In effetti, la Corte EDU, con una decisione unanime, ha completamente ribaltato il dictum dei giudici francesi, accogliendo le doglianze della donna e riscontrando una violazione da parte dell’ordinamento giuridico francese dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare), osservando che la nozione di “doveri coniugali” prevista dal diritto transalpino non tenesse in debito conto il previo consenso del coniuge ad avere rapporti sessuali con il partner.
Secondo la Corte, infatti, l’ordinamento giuridico e gran parte della produzione giurisprudenziale francese considererebbero i rapporti intimi come dei veri e propri doveri coniugali, prevedendo spesso quale conseguenza non solo l’addebito della separazione, ma addirittura il diritto ad un risarcimento dei danni in presenza di una violazione.
I Giudici della Corte Edu hanno contestato la normativa nazionale, ritenendo che la stessa si traducesse in una immotivata ingerenza nella sfera personale degli individui e che l’esistenza di un eventuale obbligo sessuale sarebbe in pieno contrasto con numerose libertà dell’individuo, tra cui la libertà sessuale, il diritto all’autonomia fisica, e violerebbe l’obbligo di prevenzione degli Stati contraenti nella lotta contro la violenza domestica e sessuale.
Peraltro, prosegue la Corte, lo stesso consenso al matrimonio non può implicare l’automatico consenso a futuri rapporti sessuali durante la vita coniugale: diversamente opinando, si giungerebbe a legittimare quello che viene definito “marital rape” (lo stupro coniugale), ossia la consumazione di un rapporto sessuale con il proprio coniuge senza il consenso dell’altro (non necessariamente con violenza fisica propriamente detta).
Il consenso, infatti, non può essere considerato un atto univoco, rilasciato staticamente una volta e per tutto il futuro al momento del matrimonio. Esso, al contrario, si traduce in un requisito dinamico, che deve essere manifestato in modo continuativo, espresso o tacito che sia, e deve necessariamente rimanere revocabile in ogni istante del rapporto coniugale.
Insomma, la Corte Edu riconosce il diritto di ogni individuo di scegliere se avere o meno rapporti sessuali, anche all’interno del matrimonio, affermando che qualsiasi atto sessuale non consensuale costituisce una forma di violenza sessuale.
Tale pronuncia è tutt’altro che scontata, atteso che i tribunali nazionali spesso non raggiungono un giusto equilibrio tra gli interessi individuali concorrenti in gioco e cioè, da un lato, la libertà sessuale di ognuno e, dall’altro, i diritti del coniuge di vedersi riconosciuta la fine del matrimonio per colpa dell’altro quando l’astinenza sessuale impostagli rende intollerabile la prosecuzione del vincolo matrimoniale.
Ed infatti, il confine tra la libertà sessuale e l’adempimento dei doveri coniugale è molto sottile e riuscire a trovare il corretto bilanciamento non è cosa facile.
Sul punto, partendo dall’esempio francese, cosa dice il nostro ordinamento e come si orientano i Giudici in questo delicatissimo terreno?
L’art. 143 del codice civile è rubricato “diritti e doveri reciproci dei coniugi” e, pertanto, riconosce l’esistenza dei doveri coniugali, includendo tra gli altri anche l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione.
Sebbene il concetto di obbligo coniugale di natura sessuale non sia esplicitamente menzionato, tradizionalmente la giurisprudenza italiana ha fatto rientrare l’obbligo di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge nel più generale concetto di assistenza morale.
Ed infatti, la mancanza di disponibilità sessuale del partner è stato spesso valutato come elemento da cui trarre importanti conseguenze nella pronuncia di separazioni o divorzi. In particolare, il rifiuto reiterato di intrattenere rapporti sessuali è stato valutato come possibile manifestazione di inadempienza ai doveri coniugali, causando una pronuncia di addebito della separazione.
Tuttavia, l’ordinamento italiano non è così rigido come quello francese e fornisce una definizione più generica di doveri coniugali rispetto alle regole transalpine: per i nostri giudici, il rifiuto del coniuge di intrattenere rapporti sessuali può costituire motivo di addebito solo nei casi in cui tale comportamento sia prolungato, ingiustificato, e da ciò ne consegua direttamente il deterioramento della convivenza.
Alcune importanti sentenze della Corte di Cassazione hanno infatti ribadito che tale dovere non può essere imposto in via coercitiva, e la mancata attività sessuale non può costituire automaticamente una condizione colpevolizzante per uno dei coniugi.
Per tali ragioni, la Suprema Corte ha tracciato i presupposti perché possa essere attribuita la colpa della crisi del rapporto coniugale ad uno dei coniugi per mancata attività sessuale. Sul punto, particolarmente rilevante è la sentenza n. 19112/2012, con cui la Suprema Corte (richiamando la precedente pronuncia n. 6276/2005) ha affermato che il rifiuto di intrattenere rapporti sessuali può essere considerato come causa della separazione con addebito al coniuge solo se esso è connotato dai seguenti caratteri: 1) se è un rifiuto persistente; 2) se è idoneo a provocare frustrazione e disagio; 3) se è idoneo a provocare irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico del coniuge. [Si riporta estratto della sentenza, con cui i Giudici ritengono che “…il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge – poiché, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner – configura e integra violazione dell’inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall’art. 143 c.c., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale. Tale volontario comportamento sfugge, pertanto, ad ogni giudizio di comparazione, non potendo in alcun modo essere giustificato come reazione o ritorsione nei confronti del partner e legittima pienamente l’addebitamento della separazione in quanto rende impossibile al coniuge il soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali e impedisce l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato”].
Peraltro, la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema anche di recente, richiedendo la presenza di ulteriori presupposti che rafforzano la tutela del coniuge. Con la sentenza n. 11032/2024, infatti, i Giudici hanno aggiunto che è possibile richiedere la separazione con addebito qualora si provi: 1) il rifiuto ingiustificato e protratto nel tempo, che non sia motivato da valide e documentabili ragioni (come problemi di salute, depressione, abitudini sessuali “non gradite” dell’altro coniuge); 2) il nesso di causalità, ossia che la causa esclusiva ed originaria del fallimento del matrimonio e della crisi coniugale deve conseguire direttamente al rifiuto dei rapporti sessuali. [Di seguito stralcio della sentenza: “Per poter addebitare ad uno dei coniugi la responsabilità della separazione, occorre…accertare la sussistenza di un nesso di causalità tra i comportamenti costituenti violazione dei doveri coniugale…e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza”].
Se ne deduce, pertanto, che il rifiuto ad avere rapporti sessuali in costanza di matrimonio non produce automaticamente la violazione dei doveri coniugali, ma potrebbe essere considerato come causa della separazione o del divorzio soltanto qualora ricorrano determinati presupposti.
Con riferimento alle conseguenze della negazione dei rapporti sessuali, è bene precisare che, secondo l’ordinamento italiano, la sottrazione immotivata e ripetuta ai rapporti di coppia implica il c.d. addebito della separazione, con il quale il coniuge perde il diritto al mantenimento e il diritto all’eredità qualora l’ex partner dovesse morire prima del divorzio.
Naturalmente, la libertà dell’individuo e segnatamente la sua libertà sessuale vengono interpretati dal nostro ordinamento quale limite invalicabile. Pertanto, chi è deluso perché il coniuge non si presta ai rapporti sessuali può soltanto chiedere la separazione con addebito, non certamente costringerlo fisicamente o moralmente a prende parte all’atto sessuale.
In caso contrario, tale condotta integrerebbe il reato di violenza sessuale, configurabile anche tra coniugi.
Sul piano strettamente penale, infatti, l’art. 609-bis del Codice Penale italiano condanna qualsiasi atto sessuale imposto senza il consenso della vittima, senza fare eccezioni nemmeno per i coniugi.
Questo orientamento trova conferma nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha ribadito in più occasioni che il consenso sessuale non può essere presunto in virtù del legame matrimoniale. Ad esempio, la Cassazione, sezione Penale, con la sentenza n. 5251/2001 ha da tempo sancito il principio per cui “l’obbligo di coabitazione non può mai giustificare una coercizione a compiere atti sessuali”.
Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 286/2014 prosegue in questa direzione di tutela dei soggetti, ribadendo, su una diversa tematica familiare, che la dignità e l’autodeterminazione personale dei coniugi devono prevalere su eventuali obblighi derivanti dal matrimonio.
Il panorama giurisprudenziale, comunque, è ricco di casi curiosi e particolari con riferimento ai rapporti sessuali all’interno del matrimonio.
Ad esempio, sempre la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 636/2005 si è pronunciata riguardo al rifiuto per ben 7 anni da parte di un marito a dar corso alla normale attività sessuale con la moglie, per rivalsa nei confronti di quest’ultima a causa di una diatriba familiare. Per punire la moglie che non era d’accordo con lui nelle questioni familiari, il marito aveva deciso di interrompere ogni rapporto fisico. La Suprema Corte, in tal caso, precisava che il rifiuto protrattosi per cosiì lungo tempo, di natura volontaria e non derivante da un’impossibilità oggettiva, costituiva una gravissima offesa alla dignità ed alla personalità della moglie, provocandole un senso di frustrazione e disagio, causando anche irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico.
Nella casistica giurisprudenziale se ne vedono di ogni e non mancano pronunce, soprattutto innanzi ai Tribunali di merito, in cui è la moglie (di solito) a chiedere l’addebito della separazione per un’”irragionevole frequenza di rapporti sessuali”.
In conclusione, alla domanda se il sesso costituisca un obbligo matrimoniale, la risposta è…nì.
In effetti, l’ordinamento giuridico presume che il vincolo matrimoniale sia caratterizzato, in modo più o meno regolare, da rapporti sessuali. Questi infatti rientrano nel generico concetto assistenza morale tra i coniugi.
Tuttavia, i Giudici devono contemperare questo principio di base con l’irrinunciabile diritto dei singoli alla propria libertà, anche sessuale.
Quindi, non esiste un vero e proprio obbligo di avere rapporti sessuali in costanza di matrimonio ma, qualora ciò avvenisse continuamente, senza alcun giustificato motivo, se provocasse frustrazione nel partner e fosse l’esclusivo motivo che ha condotto alla irreversibile crisi della coppia, allora, unitamente a tutti i presupposti di cui si è detto, tale elemento può essere valutato dai Giudici ai fini della pronuncia di addebito della separazione o del divorzio.

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