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Intersezionalità

Sessismo, razzismo, abilismo, omofobia, xenofobia, transfobia. Ogni giorno veniamo bombardati da così tante parole, attraverso giornali e schermi, che dimentichiamo chi sta alla base di quelle parole così cariche di significato: la persona. Ci hanno insegnato a guardare all’altro con categorie ferme e definite quando, in realtà, non è così che si dispiegano le intricate fantasie del tessuto sociale, liquido e colorato.

Io mi permetterò questo pomeriggio di darvi uno strumento che vi permetta di navigare questo marasma di nuove parole e concetti.

Il termine inglese “intersectionality”, traducibile in italiano con il calco “intersezionalità” è diventato un termine sempre più diffuso, nelle scienze sociali e giuridiche, quando si affrontano temi come l’identità, la differenza, la parità e la diversità.

L’“intersezionalità” indica un approccio teorico, metodologico e di intervento politico e sociale basato sulla considerazione della molteplicità degli aspetti che compongono le nostre identità e dei modi in cui questi si intrecciano creando particolari situazioni di svantaggio o di privilegio in un determinato contesto sociale. Questi aspetti possono essere ad esempio l’identità di genere, il colore della pelle, l’origine etnica, l’età, l’appartenenza religiosa, l’orientamento sessuale, la disabilità, lo status familiare, la provenienza territoriale, lo status migratorio, la condizione socio-economica e così via. È più semplicemente un gioco continua tra l’individuo e il gruppo a cui appartiene o quello con cui si identifica.

Parlando di discriminazioni, ad esempio, l’esperienza che può incontrare una donna nera è qualitativamente diversa da quella di una donna bianca. Per lo stesso motivo per cui non si potrebbe dire che tutte le donne presenti in questa stanza abbiano avuto le stesse esperienze solo perché donne o perché svolgono la stessa professione. Questa diversità è il risultato di un insieme di sistemi di disuguaglianza, esclusione e discriminazione che, intrecciandosi, espongono la persona su più fronti. I sistemi di tutela, le leggi, i servizi sociali generalmente non sono in grado di catturare la particolare esperienza discriminatoria collocata presso queste intersezioni. Così spesso queste discriminazioni restano invisibili. E se c’è invisibilità, non c’è tutela. Io non sono oggi pomeriggio una donna, domani una studentessa, dopodomani una italiana. Le nostre identità sono complesse simultaneamente e l’intersezionalità è lo strumento teorico capace di leggere queste dimensioni insieme. Immaginate se guardando uno spettacolo di danza non riuscissimo ad assorbire nello stesso momento la melodia e il movimento, o se guardando un quadro fossimo capaci di percepire solo un colore alla volta.

La prima a capire la necessità di una terra di mezzo, con particolare riferimento alle donne nere nel contesto statunitense, è stata l’attivista e giurista afroamericana Kimberlé W. Crenshaw nel 1989 di fronte a un caso giuridico degli anni ’70. Nel 1976 a St. Louis, in Missouri, nel profondo sud che fino a dodici anni prima viveva nella segregazione razziale, cinque operaie nere denunciarono la fabbrica per cui lavoravano di discriminazione razziale e sessuale. All’interno dell’azienda c’erano lavori per neri e lavori per bianchi e una donna nera non poteva accedere né ai lavori per neri nel reparto meccanico-industriale né ai lavori per donne che erano per lo più impiegate come segretarie o per lavori di ufficio e che necessitavano di “bella presenza”. Non è chiaramente discriminazione anche se alcuni uomini neri e alcune donne bianche erano state impiegate? Ma non finisce qui perché la General Motors, l’azienda per cui lavoravano, non aveva mai assunto donne nere prima del 1964, anno di promulgazione del Civil Rights Act, e costretta a licenziare parte del personale dopo la crisi petrolifera del 1973, decise di licenziare le impiegate nere sulla base del last hired, first fired (“ultimi assunti, primi licenziati”). Gli uomini neri e le donne bianche, con più anzianità lavorativa per i motivi che abbiamo elencato, invece, non vennero licenziati.

All’accusa non venne consentito di combinare assieme provvedimenti legali diversi per creare un nuovo “super-provvedimento” quindi il caso venne esaminato per capire se procedere secondo una discriminazione di razza, una discriminazione di sesso, o eventualmente nessuna, ma non una combinazione delle due. La Corte, inoltre, si oppose alla creazione di una nuova categoria donna e nera per la paura che “istituire nuove minoranze, attraverso i principi matematici della combinazione e della permutazione, avrebbe aperto le porte ad un nuovo e pericoloso scrigno di Pandora”. Se Emma Degraffenreid e le altre donne che avevano sporto denuncia alla General Motors avessero dimostrato di essere state vittime di discriminazione su basi esclusivamente razziali o di genere avrebbero avuto un caso concreto agli occhi della corte.

La General Motors riuscì a dimostrare che non aveva mai discriminato donne bianche sul posto del lavoro (ad oggi risulta una delle aziende americane con più denunce per sexual harrassement negli Stati Uniti) e la Corte consigliò alle querelanti di aggiungersi a un’altra causa che era stata mossa in quei giorni (Mosley v. General Motors) da parte degli operai neri della General Motors per discriminazioni raziali sul luogo di lavoro. Così veniva esclusa la possibilità che una donna nera si muovesse in una diversa sfera, o meglio una sfera a metà tra le due.

Secondo la Crenshaw, la narrazione giusfilosofica attorno al caso DeGraffenreid mostra come l’intersezionalità non riguarda solo come le categorie che usiamo per interpretare la nostra identità ma come esse siano usate istituzionalmente e sistemicamente per escluderle. Se guardassimo all’intersezionalità come una somma o una gerarchia di dati identitari (donna+studentessa+italiana+bianca), rischieremmo di usare gli stessi strumenti intellettivi del sistema che discrimina.

Le discriminazioni intersezionali si presentano in forme inedite perché basate sull’intersezione tra diversi fattori, i cui effetti non possono essere distinti l’uno dall’altro. Per esempio, una donna musulmana discriminata perché porta l’hijab, è vittima di una discriminazione basata sul suo essere insieme donna (genere) e musulmana (appartenenza religiosa) in una maniera completamente diversa dall’esperienza di sessismo che può subire una donna bianca o dall’islamofobia subita da un uomo musulmano. Questi sono solo esempi, l’intersezionalità può toccare ogni categoria sociale o identitaria.

Pensate ad un incrocio affollato, con i clacson che suonano e il nervosismo che chi guida nella nostra città non dovrebbe far fatica a immaginare. Poi immaginate che avvenga un grande incidente al centro di questo incrocio. Diverse strade confluiscono in quell’incrocio e le macchine che si sono scontrate provengono da tutte le direzioni. Vengono chiamate delle ambulanze, ma i medici si rifiutano di soccorrere i feriti a una condizione. Cureranno le vittime solo a patto di riuscire a rintracciare la direzione della vettura che ne ha causato le ferite. Ciò è in pratica impossibile, visto che è proprio lo scontro fra due o più vetture a provocare il danno. Senza lo scontro, causato da macchine che arrivano da più direzioni, non esisterebbe né l’incidente né la necessità di chiamare i soccorsi. L’esperimento si chiude così, con l’impossibilità d’identificare l’origine delle ferite, la decisione del medico di non intervenire e il traffico che riprende come prima, come se nulla fosse accaduto, mentre i feriti giacciono al suolo senza ricevere aiuto. La discriminazione, l’incidente, spesso è la somma di più vettori, di più direzioni e non sempre è lineare con la loro partenza ma è sempre unica al loro incrocio. L’approccio intersezionale, come strumento di sensibilità analitica, permette di elaborare politiche più inclusive che prendano in considerazione i bisogni di gruppi specifici, perché nessuno venga lasciato indietro e tutti siano adeguatamente rappresentati nelle politiche e nelle misure che li riguardano. L’intersezionalità permette di dare voce ai gruppi marginalizzati e alle loro esperienze. Adottare un approccio intersezionale significa quindi riconoscere l’unicità dell’esperienza di ciascuna persona così come delle possibili discriminazioni e forme di esclusione che subisce. Vuol dire anche riconoscere che la propria visione e conoscenza del mondo non è mai neutra, universale, ma sempre situata e determinata dal nostro posizionamento sociale e dalle dinamiche di potere in cui ciascuno di noi è inserito.

Per fare ciò, è innanzitutto necessario capire come le categorie che usiamo tutti i giorni per descrivere la realtà sociale non siano omogenee ma piene di sfumature. Queste sfumature a loro volta permettono di analizzare la realtà in maniera più complessa e completa, facendo luce sugli “angoli ciechi” degli approcci categoriali ed evitando che essi creino ingorghi così grandi da bloccare l’intera città.


 
 
 

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