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Sentenza n. 2356/2025 del Tribunale di Torino: polemiche per il linguaggio nella vicenda di maltrattamenti e lesioni

La sentenza n. 2356 del 4 giugno 2025, emessa dalla terza sezione penale del Tribunale di Torino, ha suscitato ampio dibattito non tanto per la valutazione delle prove o il ragionamento giuridico adottato, quanto per il linguaggio e le valutazioni morali espresse dai giudici. Il procedimento riguardava le accuse mosse da una donna nei confronti dell’ex marito, imputato per maltrattamenti (art. 572, commi 1 e 2 c.p.) e lesioni personali (art. 582 c.p.).

I fatti e l’esito del processo

Secondo l’impostazione del Tribunale, il reato di maltrattamenti richiede una pluralità di condotte volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro della vittima, reiterate nel tempo. Al contrario, per la configurazione del reato di lesioni personali è sufficiente anche un solo episodio di violenza.

In questo caso, l’uomo è stato riconosciuto colpevole esclusivamente per il reato di lesioni e assolto dall’accusa di maltrattamenti. Decisiva, secondo i giudici, è risultata l’inattendibilità della deposizione della parte civile, ritenuta “portatrice di macroscopici interessi personali e patrimoniali”.

Il linguaggio contestato della sentenza

Sono proprio alcune espressioni utilizzate nella motivazione a destare preoccupazione. Il giudice sottolinea come le condotte vessatorie dell’uomo sarebbero iniziate solo dopo che la donna, in modo definito “brutale”, aveva comunicato via Whatsapp all’ex marito la volontà di separarsi. Si legge nella sentenza: “non è difficile immaginare cosa abbia provato l’imputato”, frase che manifesta una certa empatia nei confronti dell’uomo.

Le discussioni successive, descritte dalla donna come un “clima d’inferno”, vengono invece considerate dal giudice come “ovvia normalità” nei rapporti di coppia in crisi. Viene così implicitamente normalizzata una reazione fatta di litigi e vessazioni in seguito a una decisione di separazione. Gli epiteti offensivi rivolti all’ex moglie, come “puttana”, vengono minimizzati: secondo il giudice, calati “nel loro specifico contesto”, tali insulti “semplicemente esprimevano il disappunto e la preoccupazione”.

Un altro passaggio che ha suscitato critiche riguarda l’affermazione “E come dargli torto?”, che sembra giustificare o comunque comprendere il comportamento dell’imputato.

La valutazione degli episodi contestati

Il tribunale ha ritenuto che gli episodi riferiti dalla parte civile non integrassero il reato di maltrattamenti. Si sostiene che la donna abbia avuto solo “paura di eventi ipotetici”, che l’uomo non abbia realmente maltrattato il figlio ma lo abbia “rimproverato con finalità educativa”, e che gli insulti rivolti al figlio fossero soltanto “un gioco goliardico”. La sentenza sottolinea “la tendenza della donna a trasfigurare episodi che fanno parte dei consueti rapporti familiari in insopportabili soprusi di elevata frequenza”.

L’unico episodio riconosciuto è quello di uno schiaffo ricevuto dalla donna, che però il giudice ridimensiona a “un allontanamento del viso con una spinta”.

Le testimonianze del compagno e dei genitori della donna non sono state ritenute sufficienti a configurare il reato di maltrattamenti, che viene quindi escluso.

La condanna per lesioni personali

L’uomo è invece stato condannato per lesioni personali in relazione a un episodio avvenuto nel luglio 2022: un pugno in faccia, seguito dalla caduta della donna e da calci al volto mentre si trovava a terra. La pena inflitta è di un anno e sei mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno da quantificare in separata sede civile.

Anche in questo caso, però, il giudice si sofferma sulle cause scatenanti, attribuendo l’episodio a un “sentimento molto umano e comprensibile”: la scoperta da parte dell’uomo di un presunto tradimento della moglie, segnalato dal figlio dodicenne. La condotta della madre viene definita “non ineccepibile” e lo sfogo del marito ricondotto “alla logica delle relazioni umane”.

Riflessioni e prospettive

La sentenza ha sollevato perplessità per un linguaggio giudicato eccessivamente schierato, che rischia di alimentare la cosiddetta “guerra dei sessi”. In una società che dovrebbe promuovere il dialogo e il rispetto reciproco tra uomini e donne, prese di posizione forti a favore di un genere a scapito dell’altro rischiano solo di acuire le contrapposizioni e ostacolare un reale percorso di composizione del conflitto.

È fondamentale promuovere una cultura dell’incontro, garantendo pari opportunità di autodeterminazione e la possibilità di vivere le proprie relazioni senza timore di ritorsioni. Avvocati, consulenti, psicologi e giudici sono chiamati a essere persone capaci di gestire con equilibrio e imparzialità le vite altrui, consapevoli della responsabilità che deriva dal loro ruolo.

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